Cimitero della Certosa

Via della Certosa, 18. Bologna

Dicono i morti - Beati, o voi passeggeri del colle
circonfusi da' caldi raggi de l'aureo sole.
Fresche a voi mormoran l'acque pe ‘l florido clivo scendenti,
cantan gli uccelli al verde, cantan le foglie al vento.
A voi sorridono i fiori sempre nuovi sopra la terra:
a voi ridon le stelle, fiori eterni del cielo. -
Dicono i morti - Cogliete i fiori che passano anch'essi,
adorate le stelle che non passano mai.

(Giosuè Carducci, da: Fuori alla Certosa di Bologna)

Nel 1801 fu stabilito un cimitero pubblico alla Certosa di San Girolamo, grande monastero suburbano soppresso nel 1797. Secondo il valente dottor Tommasini, Presidente della Commissione Sanitaria responsabile della scelta, esso era posto opportunamente "nel centro di ampia e deliziosa pianura", l'aria che lo investiva da ogni lato era "libera, mossa ed irrequieta" e la zona era soleggiata e bagnata da un torrente "copioso d'acqua". Ad accudire il cimitero furono nominati i Padri Zoccolanti dell'Annunziata.

Dal 13 aprile 1801 fu proibito sotterrare i morti "qualunque siano in qualunquesiasi luogo" della città e il giorno successivo il nuovo camposanto accolse le prime salme: un fornaio di 50 anni e una donna di 53.

Per iniziativa dell'Accademia Clementina vennero raccolti nella Certosa i monumenti antichi provenienti dalle chiese e dai conventi soppressi in città. Nella chiesa di San Girolamo furono concentrati anche parecchi affreschi raffiguranti la Beata Vergine, che in seguito trovarono sede nel chiostro detto, appunto, delle Madonne.

Nel 1803 il cancello d'ingresso fu dotato di grandi pilastri sormontati da "piagnoni" in terracotta - "puro pianto ... solidificato in panneggio" (C. Campo) - dello scultore Giovanni Putti.

Per dare comodo accesso al cimitero, a partire dal 1811 venne costruito, a cura dell'architetto Ercole Gasparini, un lungo portico collegato al Meloncello con quello di San Luca. I lavori furono completati nel 1834, con alcune modifiche, da Luigi Marchesini, grazie a un lascito del prof. Luigi Valeriani.

Nel 1815 l'incisore Francesco Rosaspina propose che i nuovi monumenti funerari fossero commissionati ad artisti "noti e reputati" e che fossero sottoposti all'esame dei maestri dell'Accademia. L'idea fu accolta dalla Municipalità e dall'estate di quell'anno la commissione accademica diede inizio ai suoi lavori, con un iter che prevedeva l'analisi preliminare dei disegni e il collaudo delle opere finite. Questa attività proseguì per tutta la prima metà dell'Ottocento e consentì la presenza in Certosa dei migliori artisti del periodo, quali Pelagio Palagi, Antonio Basoli, Pietro Fancelli, Giacomo De Maria, Giovanni Putti.

Nel 1816 l'arcivescovo di Bologna Oppizzoni riconobbe il cimitero della Certosa come luogo sacro e nel 1821 il consiglio comunale deliberò l'allestimento, all'interno di esso, di una sala contenente i busti degli "Uomini Illustri e Benemeriti" della città. Il Pantheon fu sistemato nel 1827 su progetto dell'architetto Giuseppe Tubertini, con il soffitto "a guisa di sfondato" dipinto da Filippo Pedrini.

Nel 1833 Luigi Marchesini realizzò il Colombario, edificio cimiteriale collocato nell'area delle antiche costruzioni claustrali, composto di una grande sala a tre navate con abside finale e tre transetti. Esso risultò il terzo spazio coperto più vasto di Bologna, dopo le grandi basiliche di San Petronio e San Pietro. L'architetto realizzò inoltre il Loggiato delle Tombe e la Sala delle Catacombe "capolavoro di equilibrio spaziale, di grande fascino e suggestione".

Colonnati e tombe imponenti

Nell'Ottocento la Certosa, diventata un vero e proprio museo a cielo aperto e considerata una tappa del Grand Tour italiano, fu meta di visitatori stranieri. Le parole di Stendhal testimoniano della grande considerazione raggiunta da questo luogo: "La vanità dei bolognesi si gonfia pel loro cimitero".

Nella calda estate del 1816 Byron si recò più volte a visitare il cimitero e vi tornò nel 1821, accompagnato da un incredibile custode circondato di teschi, che gli ricordava l'Amleto.

Nel 1844 Dickens si trovò, durante la sua breve visita a Bologna, a passeggiare "tra colonnati e tombe imponenti", assieme a una folla di contadini e con alle costole "un piccolo Cicerone locale", che cercava di mostrargli solo i monumenti belli.

La Certosa di Carducci

Per Giosuè Carducci la Certosa è, più di ogni altro luogo di Bologna, capace di "stimolare le leve dell'affettività" (Roda). Essa ospita la madre e il figlioletto Dante, morti entrambi nel 1870, ospita Lidia, l'amore sorto poco dopo quei due gravi lutti a consolarlo. Bellissime le parole che la ricordano: "quando la nebbia rigida ricuopre tutti i colli all'intorno, ho sempre paura che ella abbia freddo; tanto era delicata".

Luogo dove "si starà bene a riposare per sempre", il cimitero è, per il poeta civile, anche luogo di memorie storiche e preistoriche: la preistoria rivelata dagli scavi dell'ing. Antonio Zannoni, che tra il 1869 e il 1873 rinvenne qui oltre 400 tombe etrusche ricche di suppellettili:

dormon gli etruschi discesi co 'l lituo con l'asta con fermi
gli occhi ne l'alto a' verdi misteriosi clivi,
e i grandi celti rossastri correnti a lavarsi la strage
ne le fredde acque alpestri ch'ei salutavan Reno ...

In certi momenti poi il mondo dei morti oltrepassa il suo spazio, tutta la "funebre suppellettile" - freddo, oscurità, silenzio, solitudine - si impadronisce dell'esistente. Allora il poeta esclama: "Cimitero m'è il mondo". In altri momenti egli desidera congedarsi dai vivi e calarsi nel regno dei defunti. Si aspetta da essi quella pace e quella solidarietà negatagli dai vivi: "Bologna mi apre e mi promette la Certosa, la grande casa dei morti, ov'è chi mi aspetta e mi chiama e mi rimprovera, e mi promette la pace".

Carducci è stato sepolto nel campo della Certosa riservato ai bolognesi illustri accanto al suo discepolo prediletto Severino Ferrari e all'amico-rivale Enrico Panzacchi. L'ultimo esponente della famosa triade di poeti bolognesi del secondo '800, Olindo Guerrini, riposa invece nella galleria del Colombario.

Tenebroso palazzo di fate

Un vivo ricordo del grande cimitero viene dalla scrittrice Cristina Campo, nome d'arte di Vittoria Guerrini. Da piccola accompagnava la nonna, il giorno dei morti, nella "terra murata" della Certosa a visitare le tombe dei suoi numerosi avi illustri, compreso Enrico Panzacchi, del quale era nipote.

Le prime visite fatte da bambina alla cappella di famiglia, attraverso la fuga dei grandi cortili coperti del cimitero monumentale di Bologna, rimangono nel suo ricordo solenni come presentazioni a corte.
(De Stefano)

Il "grande paese" sembrava

un tenebroso palazzo dalle grandi fughe di porticati, corridoi, cortili, simili a uno scenario di tragedia spagnola rappresentata all'epoca dell'Alfieri: tutta demenza romantica, votata al mal sottile, agli amori proibiti e alle guerre redentrici ma sempre e solo, per me, tenebroso palazzo di fate.

Dalle cappelle gentilizie, nei lunghi passaggi coperti, si tendevano mani imploranti, che lei ben conosceva dalle estenuanti letture dei libri di fiabe:

Palme levate che vietavano ("Non sedere mai sull'orlo di una fontana, non comperare mai carne di condannato ..."), dita che sigillavano il labbro ("E non dovrai né parlare né ridere per sette anni, sette mesi, sette giorni ...").

Cristina Campo morì a Roma l'11 gennaio 1977, a soli 53 anni, dopo una ennesima crisi di quel cuore che ne condizionò l'esistenza.

Il mattino seguente arrivano da Bologna i pochi parenti. Il funerale è breve, nella chiesa gelata di Sant'Anselmo. Dopo la cerimonia, il feretro viene portato a Bologna. I parenti rimangono a Roma per discutere dell'eredità.

Nella corte della Certosa tornò un'ultima volta per restare in eterno, nella più discreta solitudine.

Approfondimenti
  • Giosue Carducci e i carducciani nella Certosa di Bologna, Bologna, Comune, 2007
  • Alessandro Cervellati, Certosa bianca e verde. Echi e aneddoti, Bologna, Tamari, 1967
  • Cristina De Stefano, Belinda e il mostro. Vita segreta di Cristina Campo, Milano, Adelphi, 2002, pp. 56-57, 183
  • Vittorio Roda, La città dei morti, in: Carducci e Bologna, a cura di Gina Fasoli, Mario Saccenti, Bologna, Cassa di risparmio in Bologna, 1985, pp. 77-84
  • Marco Veglia, La vita vera. Carducci a Bologna, Bologna, Bononia University press, 2007, p. 205