Casino Civico - Stamperia delle Muse

via Santo Stefano, 43

Ogni giorno festivo avrai concerti di musica e talvolta accademie di musica. Non è pure la poesia dimenticata e due volte l'anno sarai pure divertito dal canto delle Muse. Colui che ha pensato al modo di avvicinare gli uomini mediante quest'esca di divertimento che seduce perchè vario, che conforta perchè innocente, si è certamente meritato gli elogi del vero filantropo.

("Redattore del Reno", 10 luglio 1810)

Casino civico

La parte migliore di Palazzo Vizzani, situato in via Santo Stefano e appartenuto un tempo al cardinale Prospero Lambertini, poi papa Benedetto XIV, divenne nel 1809 sede del Casino Civico, erede di una antica istituzione ricreativa e culturale per nobili, che in epoca repubblicana permetteva l'ingresso anche a persone di estrazione borghese.

I soci si dedicavano "al gioco, al ballo, agli amori, alla tavola, alla musica". L'appartamento era composto da undici stanze al piano nobile, più una sala a pianterreno. Gli ambienti erano arredati con mobili "di ultimo gusto" e ornamenti lussuosi, apparati di raso e volte dipinte "con figure nude d'ogni sesso" dalle botteghe di Pietro Fancelli e Felice Giani. All'ingresso era sistemata una "bottiglieria". Di qui una fuga di sei camere portava alla sala grande, una delle più ampie di Bologna.

Dal 1810 lo Statuto della Società prevedeva due accademie di poesia annuali, una nel mese di giugno e una a dicembre. Si svolgevano in serate scelte da una commissione di soci letterati ed erano basate su un "argomento interessante e dilettevole". La lettura dei componimenti poetici era intervallata da concerti musicali.

Nel 1819, nell'ambito della Società del Casino si costituì l'Accademia Felsinea, che ebbe come emblema Apollo con la cetra circondato dalle muse. Fu diretta dal conte Dionigi Strocchi, coadiuvato dal 1822 da Massimiliano Angelelli, mentre il medico-letterato Vincenzo Valorani ricoprì la carica di segretario perpetuo.

Stamperia delle Muse

Nel palazzo Vizzani-Lambertini ebbe sede anche la Tipografia delle Muse di Pietro Brighenti, avvocato, musicofilo ed editore, in stretti rapporti con Pietro Giordani e Giacomo Leopardi. Egli l'acquistò nel 1826, spendendo "tra caratteri e torchi, e altro" circa ottocento lire, e la cedette nel 1829, ormai coperto di debiti, a Carlo Gamberini, che la trasferì nel Mercato di Mezzo all'insegna della Capra.

Brighenti, che si era ormai fatto una solida esperienza sul campo - era stato, ad esempio, editore di Leopardi presso Marsigli e Nobili - desiderava occuparsi del commercio librario come affare "stabilmente proficuo". La presenza di Leopardi a Bologna rendeva più ghiotta l'occasione per l'apertura di una stamperia, nonostante la grande concorrenza e la sempre maggiore attività censoria da parte del governo pontificio.

Il progetto editoriale di Brighenti era la collana del Parnaso italiano, contenente la produzione "di dodici dei più illustri italiani del suo tempo, vivi e defunti". Giordani gli consigliò di pubblicare all'inizio "volumi agili, titoli di richiamo anche se colti, legami con argomenti d'attualità"; lo invitò inoltre a configurare la tipografia come impresa domestica, impiegando anche le figlie nella composizione.

Brighenti però non seguì le indicazioni del letterato piacentino e una delle ragioni per cui la sua impresa fallì poco dopo fu un catalogo che non incontrò il gradimento del pubblico. Esso comunque contemplava, seppure in stampe di livello non eccelso, le opere di Pietro Giordani e Vincenzo Monti, i Versi di Leopardi, le Rime e Prose di Giuseppe Marchetti, le Rime di Carlo Pepoli e le volgarizzazioni di Anacreonte di Paolo Costa.

Brighenti promosse inoltre due effimeri giornali d'informazione culturale, "L'Abbreviatore" (1820) e "Il Caffè di Petronio" (1825-26).

Nel gennaio 1829 dovette confessare, in una lettera a Leopardi, il suo fallimento:

Il commercio librario è annientato, e ciò mi ha posto in crudelissime angustie. Da molto tempo non mi sono trovato in sì fatte ristrettezze e ti giuro che provo un affanno continuo. Io dimetterò stamperia e negoziazione di libri: merce inutile in Italia, dove si vogliono cibi e cavalli, e tutt'altro che serva ai bisogni e ai piaceri del corpo, esclusi quelli della mente, a cui niuno e sì pochi pensano, che i libri sovrabbondano.

Poco dopo lasciò completamente gli "affari tipografici e librari", per dedicarsi alla carriera delle figlie a teatro, "unica via a far denari seppur durerà".

Approfondimenti
  • Marco A. Bazzocchi, Pietro Brighenti, in: Giacomo Leopardi e Bologna: libri, immagini e documenti, a cura di Cristina Bersani e Valeria Roncuzzi Roversi-Monaco, Bologna, Pàtron, 2001, pp. 283-287
  • Umberto Beseghi, Palazzi di Bologna, 2. ed., Bologna, Tamari, 1957, pp. 325-326
  • Silvia Fornieri Marchesini, La Società del Casino, in: F.I.L.D.I.S., Cenacoli a Bologna, Bologna, L. Parma, 1988, pp. 61-71
  • Giacomo Leopardi e Bologna: libri, immagini e documenti, cit., p. 25, 204, 210
  • Leopardi e Bologna, atti del Convegno di studi per il secondo centenario leopardiano, Bologna, 18-19 maggio 1998, a cura di Marco A. Bazzocchi, Firenze, L. S. Olschki, 1999, p.129
  • Un mondo di musica. Concerti alla Società del Casino nel primo Ottocento, a cura di Maria Chiara Mazzi, Bologna, Museo del Risorgimento, 2014, p. 60
  • Giancarlo Roversi, Palazzi e case nobili del '500 a Bologna. La storia, le famiglie, le opere d'arte, Bologna, Grafis, 1986, pp. 196-211
  • Maria Gioia Tavoni, Un editore e tre tipografie, in: Leopardi e Bologna, atti del Convegno di studi per il secondo centenario leopardiano, Bologna, 18-19 maggio 1998, a cura di Marco A. Bazzocchi, Firenze, L. S. Olschki, 1999, pp. 79-111