Ma le pecore elettriche, poi, che cosa sognano?

Il sudore appiccicava la gente e inaspriva le facce. Gli occhi battevano pesanti e mezzelune scure sorgevano sotto le ascelle delle maglie più strette. La vita era una metafora, quel pomeriggio d'aprile, forse un autobus, un fiume di metallo arancione. E lui, lui era un pesce in una vasca d'umido e lamiere. Boccheggiava. Il rumore del motore era soffocato da quello del traffico; quello del traffico, dai dialoghi confusi che volavano tutt'attorno. L'autobus. Una sala d'aspetto con le ruote. Color di certe giornate di fine aprile. Dopo le cinque della sera. “[…] allora la Cesi ha detto che luillà…” “[…] perché c'è la fila al Fresh, ecco perché…” “[…] non, c'est le vent-sept…” “Scusa, cosa stai leggendo?” “[…] sono le tre meno un quarto, signorina…” “No… Scusami, tu… Ti ho chiesto cosa stai leggendo?” Parlava con lui. Si, parlava con lui, certo. Parlava anche. “Niente, un libro.” disse lui, vago. “Un libro di uno scrittore…” Lei parlava, e questo era confortante. Che una ragazza del genere parlasse anche. E lui, lui faceva meglio a stare zitto. “Uno scrittore che ha scritto un libro?” sorrise lei, tendendo le labbra. Un arco rosa, pensò lui, teso dal filo del sarcasmo. “Philip K Dick,” disse lui. “S'intitola Ma gli androidi sognano pecore elettriche?”. Le pupille della ragazza si allargarono come spugne, immerse negli occhi turchesi, e tutto a lui cominciò a sembrargli turchese, alla luce setacciata dalle tende di plastica beige. I capelli di lei cadevano giù. Parentesi sul viso pulito. La punta di una “S” ondulava vicino al limite esterno della bocca appena truccata. Lui ci si perdeva, fra quelle parentesi. Era forte, però. Non l'avrebbe più guardata, non si sarebbe più perso. Tanto a innamorarsi gli mancava qualche fermata, sarebbe sceso prima. Promesso. “Philip K Dick…” riprese lei. “Si, hanno fatto il film Blade Runner, da questo libro qui.” Lei aveva gli occhi grigio azzurri, comunque. Non turchese. No, non è che li stava guardando, è che gli era capitato di pensarci bene. “Guarda che lo conosco, sai…” “Già. Bel film. C'è un gran Harrison Ford…” “Voglio dire che conosco il libro… L'ho letto.” Lui fece cenno di sì, cercando di fuggire da quelle schegge di cristallo Swarovski che gli entravano dentro. Era la prima ragazza che gli rivolgeva la parola da mesi. Secondo il manuale, a questo punto si doveva presentare. Non poteva scappare. “Secondo il manuale a questo punto mi devo presentare. Mi chiamo Mauro.” “Anita, io. Sei di Bologna?” La gente continuava a salire e scendere. Incurante di quella piccola romanza. “Si, son di qua. Tu invece fuorisede?” Anita scosse il capo e le parentesi brune ondularono, chiudendo fra loro due gocce di sudore. “No, lavoro” precisò. “Ah.” Lui decise che voleva sapere tutto di lei. Ma lei, lei mica poteva dirgli tutto. Una cosa tipo ciao-sono-anita-faccio-la-ragazza-immagine-per-conto-di-un'agenzia-sfilo-oggi-pomeriggio-in-piazza-ho-smesso-di-studiare-perché-guadagno-un-sacco-andando-a-letto-con-vecchi-bavosi-pieni-di-grana. No. Lei non poteva mica dirgli tutto. Una signora dai capelli di ragnatela urtò lui, solleticandogli con il ciuffo la punta del naso. La curiosità gli pizzicò la lingua. Era tutto un prurito. “E cosa fai, Anita? Cioè, se non sei fuorisede…” “ La segretaria.” disse lei. “La segretaria di un agente di spettacolo…” Uno sciame di motorini confuse la voce distratta della ragazza. “Bello… Devi conoscere molta gente.” Anita aveva il corpo slanciato e non sembrava indossare le scarpe basse, e il naso fiero puntava contro il cartello fermata prenotata. I suoi occhi erano una cosa fresca di quel pomeriggio. Ma lui, lui non la stava guardando, lui era forte, non si stava perdendo. Ci passò sopra, a quegli occhi. Distratto. Una nuvola che passa sopra a una città bombardata senza versare una goccia per bagnare le labbra dei feriti, be'… è una nuvola meno distratta di lui. Davvero. “E io non faccio niente.” disse Mauro. “Cioè, studio qui all'università.” “Sì, l'immaginavo.” Anita puntò con le dita curate la stupida maglietta che lui indossava. Alma Mater, che imbecille. Mauro riuscì a commentare solo un timido “Ah, già… L'euforia della matricola… Poi passa.” Prima o poi ci caschi e la compri, quella stupida maglietta. La signora coi capelli di ragnatela si alzò. Scusi, permesso, passi pure. Mauro guardò ancora la ragazza, ma cercò di fissare un punto lontano dagli occhi. Le tette magari. Ci s'innamora anche di un paio di tette, ma è diverso. “Ah,” disse di nuovo lui, perché non sapeva cosa dire. Pensò che i misteri che bruciano dietro due occhi grigio azzurri erano misteri troppo grandi per lui che era così piccolo. Pensò pure qualche cristoddio, ma non si udì che un soffocato d'uncane lasciato andare fra i denti. L'aria densa penetrava nei polmoni e ristagnava, prima di tornar fuori. I pensieri viaggiavano più veloci delle Ducati Monster bianche e azzurre della Municipale. D'improvviso, Mauro s'immaginò di corteggiarla, di conoscere ogni particolare della sua vita. E a proposito di vita, quella del suo corpo era stretta e asciutta, e quel piercing all'ombelico appena sporgente cristoddio. Poi smise d'immaginare. Cominciò a chiedersi cosa fare. La gente attorno a loro si muoveva lenta, i suoni erano ovattati. Il tempo s'era rallentato perché lui potesse pensare meglio. Devo interessarmi a lei, chiederle di più, offrirmi di accompagnarla dove deve andare, fanculo la lezione e il mondo intero. Anzi, fanculo la lezione, il mondo, la gente. Adesso cambio, adesso la prendo, adesso sono un uomo. Poi il telefonino di Anita squillò. Fanculo anche il telefonino, pensò Mauro. Lei rispose, lui si grattò il naso. Dannata ragnatela. Anita parlò qualche secondo infinito. Segnò un indirizzo, il nome di un locale, il nome di un uomo, e rimise tutto nella borsa. Lui tirò su col naso. Lei, sentendolo tirare, pensò alla coca. Lui, pensò all'aria condizionata. “Allora, dove devi andare?” le chiese guardandosi attorno. “Se non conosci la strada ti ci accompagno…” Coglione, pensava lui. Sono proprio un coglione. “Devo arrivare in piazza Maggiore. E' qui in fondo alla via, no?” “Ah, potremmo andare a bere qualcosa… Sai, mi piacerebbe parlare di Dick e…” Lo stridere dei freni coprì i punti di sospensione della frase. Anita abbassò il capo e alzò le spalle. Le parentesi dei capelli cadevano perpendicolari al pavimento di linoleum grigio chiaro. Le porte dell'autobus si aprirono e la luce penetrò attraverso la gente, tagliando il viso di Mauro in tre parti distinte, mentre lei scendeva. Una parte prendeva il sole in pieno, e si contraeva verso l'esterno. Una restava all'ombra, e tentava di sorriderle. L'ultima era colorata dal foulard della signora coi capelli di ragnatela. Nessuno notò che a lui brillavano gli occhi, immersi com'erano fra l'arancione e il blu. Mauro pensava alla telefonata che aveva ricevuto Anita. Pensava che forse non era la donna che faceva per lui. Un indirizzo, un locale, un nome. Via Orfeo. Il Pappagorgia. Francesco Zecchini. Si scosse. “Quel puttaniere di papà…”, si disse lui mentre l'autobus ripartiva, e la poesia si schiantava, e le metafore tornavano a nascondersi come scarafaggi impauriti nei buchi della sua testa.