Caffè degli Stelloni

via Rizzoli, 4. Bologna

Del resto, amo anch'io molto quella stanzetta degli Stelloni, massime dopo che l'hai consecrata tu. E intendi che la sera calda di Bologna, e la piazza cupa, fra quella luce di gas concentrata, lassù sono qualche cosa di essenzialmente originale. Le gravi e grosse e grasse e un po' buie sale dei ristoratori di Milano non valgono certo quell'aerea saletta degli Stelloni.

(G. Carducci)

Il Caffè degli Stelloni era uno dei più antichi di Bologna. Doveva il suo nome alle colonnine di legno dipinte di rosso, che dividevano Piazza Nettuno da Via Mercato di Mezzo (poi via Rizzoli) e fungevano da fittoni per impedire alle carrozze l'accesso alla piazza del Nettuno.

Il 4 maggio 1762 Giuseppe Bartolotti, proprietario del Caffè, ottenne il permesso di posticipare fino alle 4 di notte (mezzanotte circa) la chiusura della sua "bottega e camera del bigliardo". Il 4 febbraio 1801 Antonio Camillo Sampieri, vendette, per 12.000 lire, la parte di sua spettanza del Palazzo Scappi a Luigi Bortolotti, figlio di Giuseppe, conduttore del Caffè, aperto ormai da alcuni anni. Si trattava di

tre piani annessi che hanno lume dal cortile grande, cucina con forno al pian terreno con cantina e granaro ed altana e parimenti una bottega ad uso di caffè sottoposta a detti appartamenti con stanza e due camerini.

Il locale era in una posizione strategica, nell'umbilico urbis, in pieno centro cittadino. Vi si poteva accedere da quella che un tempo era la porta d'ingresso di Palazzo Scappi, sotto l'antica torre omonima, ma anche dal Mercato di Mezzo. A sinistra dell'entrata sul Canton de' Fiori si apriva una merceria all'insegna della Cieca Fortuna (oggi Coroncina), di cui era proprietaria Brigida Borghi, madre del patriota Luigi Zamboni, lo studente ideatore, nel 1794, del primo tentativo insurrezionale contro il governo pontificio.

Dagli atti del processo Zamboni si apprende che il piano per la sollevazione fu ordito tra le pareti di questo caffè. Qui Luigi si fermava quasi ogni mattina a bere "un bicchierino", si intratteneva in "segreti colloqui" con alcuni sovversivi e si incontrava talvolta con emissari francesi, che lo persuasero a recarsi in Francia e forse ad entrare nella massoneria.

Oltre che di cospiratori, il Caffè era meta di persone del ceto medio, con un certo livello di istruzione, che amavano discutere dei fatti d'attualità e di questioni politiche.

Dopo l'arrivo dei Francesi il Caffè, frequentato da "giacobini infervorati dal nuovo verbo ultramontano", pronti a spazzar via ogni residuo del passato, diventò il luogo di raduno delle pubbliche manifestazioni. Davanti ad esso si formavano i cortei dei patrioti che percorrevano le strade cittadine, acclamando libertà ed eguaglianza, e che protestavano sotto ai palazzi dei retrogradi, restii a illuminare le loro finestre durante le feste repubblicane.

Uno dei giacobini più esaltati era il conte Giuseppe Gioannetti, nipote dell'Arcivescovo, con al fianco il fratello Rodolfo, l'ex conte Riario e qualche altra testa calda. Di qui guidò la spedizione per la distruzione degli emblemi araldici. Ma assieme agli agitatori, agli Stelloni c'erano anche gli informatori della polizia, che annotavano con discrezione ogni movimento contro l'ordine costituito.

Il Caffè proseguì la sua attività anche negli anni della Restaurazione, sempre frequentato, da un lato da esponenti borghesi e da qualche simpatizzante per gli ideali risorgimentali, dall'altro da spie papaline. Negli anni Trenta fu chiuso per qualche tempo per restauro e riaprì nel 1837. I nuovi proprietari non badarono a spese per farne uno "dei più eleganti e ricchi caffè di Bologna", in grado di richiamare una numerosa clientela per "la vastità dei locali, la squisitezza del servizio, la copia delle provviste e l'abilità del ministero".

In un salottino al primo piano del Caffè avvenivano i segreti incontri tra il poeta Giosuè Carducci e la sua amante Carolina Cristofori Piva. Lidia

parlava del salottino di quel locale come di un eliso e Carducci commentava "tanto poco ti farebbe beata", anche se ammetteva di amare anche lui quella stanzetta.

Una officina bolognese

In un ufficio del palazzo di via Rizzoli n. 4, lo stesso del Caffè degli Stelloni, presso la Libreria antiquaria "Palmaverde", c'era la redazione della rivista letteraria "Officina", promossa, a partire dal maggio 1955, da Roberto Roversi, Francesco Leonetti e Pier Paolo Pasolini, amici dagli anni del liceo.

Come testimonia Enzo Siciliano, la rivista aveva una "copertina in ruvido cartoncino di imballaggio: color grezzo dominante - un colore d'officina".

Nel titolo c'era un richiamo-tributo a Roberto Longhi, maestro di Pasolini, e alla sua Officina ferrarese, pietra miliare della critica artistica del Novecento. Voleva essere, quella bolognese, una "officina di idee, di stile, di poesia", senza sottrarsi al confronto con la storia e la realtà sociale.

Uscirono dodici numeri, fino all'aprile 1958, più un paio di fascicoli di seconda serie, curati da Fabio Mauri.

Pasolini viveva la "vita violenta" del suo primo periodo romano. Venire alle riunioni di "Officina", tra volti noti e "bottiglie di lambrusco di fattoria" era come rifugiarsi in un ambiente sicuro e tranquillo. Bologna era una città quieta,

che non aveva mutato volto dagli anni dell'anteguerra ed era ancora cittadella privilegiata di studi universitari, la propria "Porziuncola".

Approfondimenti
  • I caffè storici in Emilia-Romagna e Montefeltro, a cura di Giancarlo Roversi, Casalecchio di Reno, Grafis, 1994, pp. 43-48
  • Claudia Culiersi, Paolo Culiersi, Carducci bolognese, Bologna, Patron, 2006, p. 114
  • Carlo Manelli, La Massoneria a Bologna dal XII al XX secolo, Bologna, Analisi, 1986, p. 34
  • Enzo Siciliano, Vita di Pasolini, Milano, Mondadori, 2005, pp. 219-230