Il moto di Savigno
La Direzione di polizia scopre alla fine di luglio una cospirazione politica della Giovine Italia, che si propone di rovesciare “il Governo dei preti”. Alcuni “scellerati” pensano di suscitare una rivolta, “adescando con denaro e d’insieme promesse di preda poca mano di gente tratta dalla classe più miserabile”.
Il moto è promosso da Nicola Fabrizi, fondatore della Legione Italica, braccio armato della Giovine Italia, nonostante il parere contrario di Giuseppe Mazzini. “Contando sopra un sollevamento nel reame di Napoli” gli insorti sperano di “emancipare l'Italia”.
Essi provengono da varie estrazioni sociali: vi sono nobili come Livio Zambeccari (1802-1862), Pietro Pietramellara (1804-1849), avvocati come Gaetano Bottrigari (1809-1889), popolani di Bologna e della Romagna, ma soprattutto dei paesi dell'Appennino bolognese: Savigno, Praduro e Sasso, Monte S. Pietro, Vergato.
Gli insorti hanno il sostegno di personaggi come i coniugi Gozzadini, il conte Giovanni e la contessa Nina Serego Alighieri.
Il cardinale Spinola nomina una commissione militare, con funzione di tribunale speciale, per processi sommari e inappellabili.
Fa appostare in vari punti di Bologna, e soprattutto a San Michele in Bosco per la sua sicurezza personale, un contingente di Centurioni, detti Becchi di Legno. Sparge denaro a piene mani per pagare spie e avere notizie dei ribelli. Infine invia tutte le truppe e le forze di polizia disponibili per debellarli.
Il 15 agosto 1843 una banda di “rivoltosi briganti”, radunata dai fratelli Pasquale (1804-1861) e Saverio (1806-1873) Muratori, possidenti di Calderino, assale un picchetto di militari, comandati dal capitano Castelvetri, che alloggia presso l'osteria di Savigno, nella valle del Samoggia.
Lo scontro armato è molto duro e si conclude con la sconfitta dei gendarmi e dei volontari pontifici, alcuni dei quali vengono uccisi, mentre altri sono fatti prigionieri.
Il capitano Castelvetri è ucciso a tradimento dal “ferocissimo” Giovanni Marzari di Faenza, contro il parere dei capi e della maggioranza dei rivoltosi.
Avuto sentore dell'arrivo di un contingente di truppe regolari, i “cappelletti” - i rivoltosi sono così chiamati dalla polizia per il cappello basso e floscio che indossano - fuggono da Savigno e nei giorni successivi vagano sull'Appennino: il 16 sono a Lagune, il 18 agosto giungono a Monte Pastore, il 30 si trovano a Calderino di Monte S. Pietro.
Ottengono anche rinforzi: alcuni volontari romagnoli e quaranta popolani bolognesi, arruolati dal marchese Livio Zambeccari.
Arrivati a Gaibola e informati dell'arrivo imminente dei gendarmi, i rivoltosi si sbandano e sono costretti alla fuga: molti vengono catturati nella Parrocchia di S. Maria di Zena e sul Monte delle Formiche.
I fratelli Muratori, con pochi altri, resistono alcuni giorni nel territorio di Loiano. Il 24 agosto la loro banda, unitasi a quelle di Giovanni Marzari e Ignazio Ribotti di Molières, è raggiunta a Castel del Rio da una colonna di cinquecento soldati pontifici.
Dopo lo scontro, che provoca diverse vittime, il gruppo si scioglie: alcuni insorti riusciranno a fuggire in Francia da Livorno, dove saranno internati nel "deposito" di Chateauroux.
Pasquale Muratori in seguito studierà e prenderà la laurea in medicina a Parigi. Dopo l'Unità diventerà maggiore medico dell'esercito italiano.
Altri cospiratori verranno processati a Bologna dalla Commissione militare e condannati a morte o al carcere.
Dei 25 accusati della cospirazione, nove sono affiliati alla massoneria: oltre ai fratelli Muratori, i conti Zambeccari, Biancoli, Pietramellara e i dottori Bottrigari e Saragoni.
Il moto di Savigno sarà commemorato cinquant'anni dopo da Enrico Panzacchi. Egli ricorderà "la vigilanza esosa, il vile spionaggio, le vessazioni, il carcere, l'esiglio", quali strumenti di un assolutismo papale, che pareva assicurato in eterno.
Sulla piazza centrale di Savigno sarà eretto nel 1893 un Monumento ai Moti su disegno di Tullo Golfarelli.
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