Scrittori sotto i portici

Scrittori sotto i portici

A Bologna all'inizio del secolo la nuova generazione universitaria si allontana dal classicismo, erudito, carducciano imperante nell'800 e prende a modello D'Annunzio.

Tra i giovani che aderiscono all'estetismo simbolista vi sono Luigi Federzoni e Manara Valgimigli.

Anche Giovanni Pascoli, nelle vesti non più di anarchico ribelle, ma di attempato professore e poeta nazionale, propone una sensibilità nuova e un inedito sperimentalismo verbale.

Negli anni dieci-venti, al tramonto della Belle Epoque, la città con i suoi cenacoli diventa una sorta di effimera capitale della poesia, popolata di studenti goliardi e giovani letterati in grigioverde, quali Giuseppe Raimondi e Riccardo Bacchelli: dalla provincia si guarda con ostinazione e curiosità all'Europa, alle avanguardie, e molti vagantes futuri famosi lasciano tracce e ricordi al Bar Nazionale, al Caffè San Pietro o semplicemente sotto i portici: da Bino Binazzi a Dino Campana, da Vincenzo Cardarelli a Filippo De Pisis.

Con Raimondi c'è quasi sempre Giorgio Morandi, alto e taciturno: la loro routine prevede i portici della Fondazza, il negozio del fumista in Santo Stefano, Strada Maggiore ...

Il fascismo fa l'effetto di congelare quel po' di Bologna cosmopolita. La patria della Decima Legio passa dal manganello al Littoriale, mentore Leandro Arpinati; dalle velleità di una università fascista quasi popolare, dotata di ristorante e bagno diurno, al gesto futurista di Leo Longanesi, strapaesano indomito e geniale: lo schiaffo al maestro Toscanini.

È nel GUF e alla GIL che qualcosa di nuovo matura: anni Quaranta, sotto il segno della fronda, speranze (vane) di rinnovare il fascismo, riportandolo a mitiche origini rivoluzionarie e anti-borghesi, tentativi di aperture culturali, timidi assaggi di poesia: gli Arcangeli, Roversi, Pasolini, Renzi, ma anche Giorgio Bassani e Attilio Bertolucci nell'ombra di Roberto Longhi e Carlo L. Ragghianti.

La guerra, però, disperde le speranze, inghiotte la gioventù. Quando è finita, a ferite ancora aperte, si leva la voce degli scrittori-partigiani Antonio Meluschi e Renata Viganò e di chi, come Piero Jahier, nel Ventennio si è opposto tacendo.

E necessario è raccontare le sofferenze, dire chi ha pagato, caro, per la libertà.

La poesia cercherà di farsi officina, di trovare nuove strade, nuovi cantori.

Con l'aiuto di Pasolini, ormai lontano dall'aria "barbaramente azzurra" di Bologna, nascerà una Palma-verde di alto fusto, tenace, che con Roversi aggancerà la voglia di riscatto, di apertura, di altrove dei giovani della provincia padana.

Una pianta che ancora dà frutti.