Londra in bianco e nero

Se ci penso adesso ho quasi l'impressione di avere inventato tutto: John Michael, Londra, cinque giorni di un gelido febbraio, trent'anni fa. Mi sono rimaste solo un paio di foto in bianco e nero, scattate di fronte al British Museum: io ho un cappotto con il collo di pelliccia, le mani affondate nelle tasche e sorrido distratta, evitando di fissare l'obiettivo; lui, invece, ride beato in faccia alla macchina fotografica. Ha gli occhi chiari e lo sguardo beffardo e più lo fisso più mi pare di non averlo mai conosciuto uno così poco grigio, uno in grado di colorare con un sorriso un'istantanea fuori fuoco in bianco e nero. Non sono più sicura nemmeno di come ci siamo incontrati: a volte mi pare che piovesse - quando non c'era nevischio, pioveva a dirotto, quell'inverno e forse lui si è offerto di ripararmi sotto il suo ombrello, uscendo dalla biblioteca; altre volte ho l'impressione che fossimo vicini, in lunga fila per entrare alla reading room. O invece è stato sulla metropolitana: a una fermata brusca mi è scivolato il libro che tenevo sulle ginocchia; lui, che mi sedeva di fronte, l'ha raccolto, e s'è reso conto che stavamo leggendo lo stesso romanzo, nello stesso momento. Così abbiamo cominciato a parlarne e siamo scesi insieme, alla stessa fermata, quella di Tottenham, perché tutt'e due avevamo la stessa meta: la British Library, l'imponente biblioteca dove entrambi raccoglievamo materiale per le nostre tesi di laurea. Questo lo ricordo bene, però: ero a Londra già da una ventina di giorni, quando l'ho incontrato: già contavo le ore che mi separavano dal rientro poi, all'improvviso, era apparso John Michael, quel lunedì mattina, e la voglia di tornare era svanita. Avevo passato venti giorni in solitudine, tra la mia stanzetta allo YWCA - mia madre, per non correre rischi, mi aveva fatto alloggiare in un'istituzione per sole donne - e l'enorme biblioteca, che allora stava ancora dentro al British Museum, un centinaio di metri più avanti, lungo la Great Russell Street. Tutto il mio tempo lo trascorrevo tra volumi e schedari, a leggere vecchi testi alla luce delle fievoli lampade da tavolo, prendendo appunti in maniera frenetica, trascrivendone, anzi, interi capitoli. La sera sedevo sul lettino con le sponde di ferro e cancellavo un altro giorno dalla mia agenda; la mattina, dopo una doccia spartana nel freddo del bagno comune, mi preparavo a un'altra giornata di gelo guardando le facce delle mie vicine di stanza al tavolo del breakfast: i volti graffiati da rughe delle anziane signorine che vivevano in quel luogo tetro e che iniziavano puntualmente ogni nuova giornata affondando angosce e malumori nella tazza del porridge, prima di uscire al freddo, l'ombrello scuro appeso all'avambraccio. A volte avevo l'impressione che, se mi fossi trattenuta più a lungo in quel posto, avrei finito per diventare come loro. Leggevo, prima di addormentarmi, La peste di Camus, e cominciavo ad avvertire tutti i sintomi della 'sindrome della città di Orano': qualcosa sarebbe capitato, temevo, che mi avrebbe separata per sempre dalla mia famiglia, dalle due torri e dalle dodici porte. La mattina in cui incontrai John Michael, però, avevo con me un altro romanzo, On the Road, e con lui non parlai che di viaggiare, camminare, attraversare paesi, come se lo scopo della mia vita fosse solo allontanarmi il più possibile dalle torri antiche. Mi sforzo, mi sforzo, ma recupero solo brandelli di memoria: non c'è continuità in quello che ricordo di quei pochi giorni. Solo immagini sfocate, primi piani staccati dal loro contesto, scene veloci con l'audio cancellato. Noi due al riparo di una tettoia a Kew Gardens, dove la pioggia ci ha sorpreso in mezzo alle felci; un film interrotto da un improvviso black out che getta la città nel buio più assoluto per un paio d'ore - e noi a cercare rifugio in un caffè illuminato dalle candele, e i miei lunghi capelli che prendono fuoco quando mi avvicino un po' troppo alla fiamma; e poi, l'ultima sera, balliamo insieme - "Something in the way she moves/ attracts me like no other lover" - e io ho quasi paura di stringerlo più forte, come mi piacerebbe fare, perché lui è sempre così corretto, così inglese, e non mi dirà mai che gli piaccio, nemmeno la mattina che mi accompagna a Victoria Station a prendere il mio treno, e anche lui ha gli occhi lucidi, ma mi tende soltanto la mano, e dice: "Take care", "Stammi bene", sfiorandomi appena una guancia con le labbra... Ancora inverno, ancora febbraio, le quattro del pomeriggio e quasi notte. Nella sala di lettura della nuova British Library, a King's Cross, un riflesso di luce, sulla mia postazione, illumina la faccia sorridente di John Michael nella foto ingiallita scivolata tra le pagine del mio libro. Lo guardo, mi guarda, guardiamo la spia luminosa che lampeggia l'arrivo del libro che ho richiesto, i monitor per la consultazione dei cataloghi, il portatile su cui mi ostino a quasi ricopiare i testi che consulto. Niente di tutto questo appartiene al nostro ricordo. Fuori, la luna è un'unghia appena tagliata persa in uno spazio disperatamente blu. Tutte le stelle dormono. E domani, lo so, pioverà ancora sulla biblioteca e sui miei libri.